Appunti su Fabio Fognini.
I fatti sono così riassumibili: l’ottimo Fabio Fognini, su cui si stanno accumulando speranze e legittimi entusiasmi mancando un top ten italico da decenni, è impegnato in un torneo formalmente monegasco ma sostanzialmente italiano (c’erano più tifosi suoi che per Tsonga, a Monte Carlo funziona così). Perde la trebisonda per una chiamata – errata – a suo danno, quando parevano esserci premesse per una vittoria che tecnicamente stava meritando.
Click. Come ai tempi della gioventù (o anche solo a Cincinnati 2013 contro Stepanek), Fognini vira all’autolesionismo e perde una partita che era ormai dalla sua parte. Un match importante, per un quarto di finale in un torneo 1000, in un periodo per lui glorioso e di grandi aspettative.
La lite produce 17 punti persi in fila, una discussione prolungata con il referee per chiedere la rimozione del giudice di linea errante (ottenuta, non era per nulla scontata né tantomeno dovuta), quattro punti vinti in tutto il terzo set, nove giochi consecutivi ceduti. All’ultimo cambio campo, pur conscio di telecamere e microfoni, il conte di Arma di Taggia decide di dedicarsi alla benedizione, nell’ordine, di una persona che unanimemente si è identificata con il padre ('*********** fai qui, mettici la faccia invece di fare le facce da culo, vai via') e pure del pubblico, gentilmente apostrofato ('tutte queste merde qua').
Un primo, banale argomento secondo cui un tennista andrebbe lasciato libero di autoflagellarsi, sciupare occasioni senza doverne rendere conto ad alcuno perché, in sostanza fa ciò che gli pare e ne paga integralmente le conseguenze, è liquidabile così: quando si abbraccia la carriera sportiva, è proprio il versante 'pubblicistico' della propria attività professionale che rileva. Del resto, se gli sportivi di alto livello non li vedesse nessuno e nessuno pagasse per assistere alle loro performances, costoro non vivrebbero più di sport, ma dovrebbero trovarsi un altro mestiere per campare e giocare in cortile nel tempo libero. Dove sarebbero liberi di abbandonarsi al turpiloquio ed alla più grottesca delle sceneggiate invocando il diritto all’autodeterminazione e alla riservatezza. Il pubblico può lagnarsi se il proprio campione si macchia di condotte esecrabili ed il giocatore professionista, per il solo fatto di esibirsi in pubblico e di trarre da ciò il suo arricchimento personale, è tenuto a rispettare regole (anche non scritte) sotto vari versanti: sa di avere addosso gli occhi di migliaia di ragazzini che lo seguono e lo imitano. Sa di incarnare sogni e speranze di tutti gli appassionati di sport che convogliano nell’atleta di eccellenza il proprio piacere e soddisfazione per l’impresa e la vittoria. L’identificazione nel campione è storia dei millenni andati: c’era ai tempi del discobolo, immortalato dalla statua di Mirone e sarà sempre così. Nel caso in cui non si dovesse accettare questo patto elementare, bisognerebbe considerare l’idea di dedicarsi ad altro.
Un giornalista, poi, è tenuto a testimoniare ciò che accade. E' perciò pienamente legittimato ad offrire una chiave di lettura degli avvenimenti, a patto che sia circostanziata ed intellettuamente onesta.
Invece, purtroppo, la sceneggiata di Monte Carlo di ieri ha dato la stura al peggio del rassemblement pseudogiornalistico!
Leggendo qualche commento, ne emerge che, secondo l’illuminato parere di sedicenti giornalisti dall’indiscutibile Dna da ultras della domenica pomeriggio, criticare la scenata del Fou Fogninì di giorni fa equivarrebbe a 'scendere dal carro' del campione. Motivazione: giorni fa lo si glorificava per le imprese in Davis o per la classifica in formidabile ascesa, perché saltargli alla giugulare oggi vestendo i panni dei censori catoniani, invece di fargli una carezza ed un in bocca al lupo per Roma e Parigi?
Questa è la testimonianza più inoppugnabile della desertificazione di valori, talento e dignità professionale del lavoro che ritengo nobile (nonostante tutto), ormai contro ogni evidenza. Un non-ragionamento del genere, peraltro, non mi turba, ma solo se lo ascolto al bar. In tutte le sue declinazioni: altri fenomeni invocano una ridicola compensazione (se glorifichi Fognini oggi, non dovrai criticarlo ferocemente domani, pena l’incoerenza).
Trovo curioso, peraltro, sostenere che la critica della pietosa sceneggiata di ieri sia 'da bacchettoni'. Non lo è.
Se Fognini insulta il padre a casa sua, affari suoi. Se a casa mangia senza posate come l’uomo di Cro-Magnon dei Balzi Rossi, idem. Ma ci sono ruoli, nella società, che impongono una qualità di comportamento e di apparenza, nella sua accezione più lata. La visibilità di uno sportivo professionista trascende, almeno nel tempo della sua performance sportiva, la legittima richiesta di privacy e libertà di agire del cittadino nella sua vita intima. Il personaggio pubblico è tenuto ad alzare l’asticella della propria condotta, proprio in virtù del suo status: se viola quelle regole, se si rende attore di vicende meste come quella sul centrale del Country Club, additare a moralismo peloso il giusto sdegno per un episodio prolungato ed inescusabile è sinceramente insensato.
Fognini si è reso protagonista di una mezz’ora di ordalia imbarazzante. Avvilente per sé, per chi era su quel campo, per chi ha visto ed ascoltato a casa. La sua miglior ragione, ex post, è stata questa: chi mi conosce, sa perché ho fatto così e mi capisce. Che gli altri parlino, critichino, condannino, tanto chissenefrega: sono felici quando perdo, remano contro.
Ottima ragione, valida però per una lite nelle quattro mura domestiche e non sul campo centrale di uno dei tornei più famosi del pianeta. 'Caro' Fabio, non puoi pretendere che quanto fai sul campo rimanga una questione esclusivamente privata. Se è questa la tua aspirazione, l’unica soluzione è giocare nel giardino di casa, al riparo di una siepe alta tre metri.
L’unica azione opportuna, dopo un episodio tanto desolante, sarebbe stata quella di presentarsi in conferenza stampa – possibilmente senza pastrocchiare il telefono cellulare con l’incedere del bandolero stanco – e chiedere scusa a tutti, per una vicenda che è e rimane inescusabile.
Invece, Fognini ha aspettato la sera per scrivere su Twitter questo:
Grazie alla super telecronaca della Signora ELENA PERO.
Questa frasetta, che il giocatore scrive (con una aggravante: lo fa a freddo, in serata) alla 'Signora Elena Pero', con l’unico scopo di aizzare la tifoseria alla lapidazione verbale di una giornalista che ha fatto solo il suo mestiere e non lo stuoino, come forse si vorrebbe, è la più autentica delle testimonianze di una latente immaturità; non sportiva, magari. E' qualcosa di più profondo e non troppo incoraggiante.
Questo episodio non ha, né deve avere alcunché a che fare con Murray e la Davis o con il fatto che Fognini vincerà i prossimi tre Roland Garros o che dalla prossima settimana smetterà di giocare e coltiverà basilico nelle serre di Bussana. La cosa migliore che possa accadere al tennis italiano è ritrovare un campione dopo Adriano Panatta. Manca da troppo tempo e me lo auguro di cuore...ma esiste un codice nello sport e giorni fa è stato non ignorato, ma vilipeso. Né ci si può sottrarre al giudizio con l’argomento che ciò che avviene in campo è affare dell’atleta e di nessun altro. Chi racconta ed offre alla società una lettura degli eventi, cioè fa il giornalista, non può che stigmatizzare quanto ha avuto la ventura di vedere e sentire, indipendentemente dal fatto che qualcuno lo utilizzerà per fini personali o per cavalcare battaglie poco limpide. Un giornalista non deve né uccidere né deificare a priori, deve fare solo il suo lavoro secondo coscienza. Né questo compito può essere influenzato dalle simpatie, magari anche dall’affetto che si può provare per un giocatore o per chi gli sta vicino, perché la pietas e la umana comprensione non vanno mai, né in buona né in mala fede, mescolate al dovere di mantenere un giudizio equanime sugli avvenimenti.