NELLA MENTE DEL TENNISTANel tennis, così come nello sport in generale, l’aspetto mentale è determinante ai fini della costruzione di un campione. Autostima, paura di vincere, frustrazione: di questo e molto altro si occupa la psicologia applicata al tennis[Devi essere iscritto e connesso per vedere questo link]Roma – “Ah, se avesse la testa giusta…”, già. Quante volte abbiamo sentito o letto questa frase, che travalica i confini dello sport e calza a pennello in qualsiasi ambito della società. Ebbene, nel tennis è un leitmotiv, e in quanto tale inflazionato fino allo sfinimento. Due sono le vie in tal senso: la più comune è quella del tennista che suscita rabbia, rammarico, talvolta frustrazione, perché baciato da madre natura ma tennisticamente poco intelligente; al contrario, c’è quello su cui nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo ma che, con abnegazione e dedizione, riesce a scollinare perché ha immagazzinato l’atteggiamento giusto. Ebbene, come accade ciò? Cosa alberga nella mente del tennista? Come ci si approccia alla pallina? Qui di seguito cercheremo di capirne di più, barcamenandoci con cautela in un settore – quello della psicologia applicata al tennis – ancora parzialmente inesplorato.
Un testo interessante nell’ambito di tali studi è “Il cervello tennistico”, un manuale ricco di informazioni, consigli e suggerimenti finalizzati ad ottimizzare la prestazione del tennista sul campo. Secondo l’autore, Federico Di Carlo,
“esistono quattro macroaree: mentale, tecnica, tattica, atletica. La prima è quella che incide di più (il 40%), seguita da quella atletica (30%), tecnica (20%) e tattica (10%)”. Il segreto è coltivare quest’aspetto, perché
“il gioco mentale va non solo conosciuto teoricamente, ma deve essere allenato e praticato come qualsiasi altro colpo ed abilità tecnico-tattica di un giocatore”. Le abilità mentali non servono allo scopo se non vengono praticate, allenate ed automatizzate sul campo in situazioni di gioco reale e poi applicate regolarmente in partita. Sapere non vuol dire automaticamente saper fare. Su questa lunghezza d’onda si colloca lo studioso americano Bill Cole
: “Avere una comprensione concettuale della psicologia dello sport è importante, ma questa da sola non è sufficiente. I principi della psicologia dello sport devono essere praticati, usati in condizioni di gara e padroneggiati prima che possano essere richiamati in modo affidabile giorno dopo giorno in condizioni competitive”. E allora: perché lasciare tutto al caso quando è teoricamente dimostrato che le abilità mentali possono essere allenate ed è praticamente riscontrato che possono migliorare sensibilmente la prestazione degli atleti in campo? In realtà, il dottor Jorge Valverde ritiene che l’allenamento mentale sia molto più praticato di quanto si pensi, ma i
[Devi essere iscritto e connesso per vedere questo link] in primis non ne parlano perché esso costituisce un vantaggio sugli altri
: “I giocatori che raggiungono il vertice di solito praticano l’allenamento mentale, ma se lo tengono come loro arma segreta”. In Italia, però, l’importanza della psicologia applicata al tennis fatica a venir fuori:
“Da noi la preparazione mentale è (quasi) completamente bistrattata. Siamo ancora molto in ritardo in comparazione alle altre scuole tennistiche. Non è un caso che la maggior parte della letteratura mondiale sugli aspetti mentali nel tennis è in lingua inglese, scritta da ricercatori di origine inglese, americana, australiana, nazioni in cui questo sport è molto più radicato nella cultura e tradizione sportiva”, sottolinea Di Carlo. In sostanza, siamo ancora indietro ma qualcosa si muove.
Quando si parla di aspetto mentale non è corretto ricondurre il tutto ad una questione di fiducia. Sarebbe semplicistico e pressappochista. A certi livelli, la consapevolezza nei propri mezzi è una peculiarità comune:“I giocatori professionisti hanno tutti la consapevolezza di essere forti, se non l’avessero con sé non si troverebbero a quei livelli. Agli altissimi livelli il vantaggio competitivo consiste nell’abilità di spostare la soglia del dolore e della sopportazione fisica e mentale più in là”, sostiene Di Carlo. Renato Gaiotti, allenatore di tennis e counsellor professionale in psicologia dello sport presso l’Isef di Torino, focalizza la propria attenzione sulle tecniche di rilassamento: respirazione (inspirare quando arriva la pallina, espirare al momento dell’impatto), contrazione e decontrazione muscolare, controllo dell’ansia prima e durante il match. Per lui l’approccio ottimale alla gara è il seguente: ogni colpo è il primo colpo; ogni game è il primo game. Giacomo Paleni, coach internazionale ed esperto in Psicologia dello Sport, pone invece l’accento sul concetto di errore: “L’errore provoca spesso una caduta emotiva. Se l’errore porterà ad una risposta emozionale (rabbia, imprecazioni, lanci di racchetta) il numero di essi aumenterà perché l’espressione della rabbia si rafforza. Devi agire come se l’errore non rappresenti un problema, anzi: devi pensare che il tuo corpo sta sperimentando nuove risposte motorie per evitare altri errori”. Paleni suggerisce poi che saltellare prima del servizio favorisce un aumento dell’intensità che, al contrario, diminuisce se riesci a sorridere durante i momenti difficili. Lo psicologo Antonio Daino analizza invece l’aspetto dell’autostima, la quale dipende principalmente dalla capacità del primo maestro di trasferire le giuste componenti all’atleta.
E la famigerata paura di vincere? Altrimenti detta Nikefobia (da Nike, dea della vittoria)?
Sono state fornite diverse interpretazioni in merito alla sindrome nikefobica, dalla prospettiva psicanalitica a quella meramente psicologica. Secondo la classica concezione freudiana un bambino vissuto in una famiglia troppo protettiva, in cui gli venga impedita ogni espressione di se stesso, o di aggressività, si ritroverà da grande con la difficoltà di affermare il proprio carattere. Quindi, la vittoria, che nello sport agonistico è la massima espressione di un’aggressività ben canalizzata, viene rifiutata. Un’altra spiegazione può derivare dall’opinione che allenatori e staff tecnico hanno dell’atleta stesso: se un atleta è considerato particolarmente forte, ma lui non si percepisce tale, può scattare la paura di fallire e allora si innesca un meccanismo di rinviare l’attesa vittoria per guadagnare tempo. Ultima interpretazione è quella secondo cui dopo una grandiosa quanto inaspettata vittoria l’atleta teme di deludere il pubblico e si chiude in se stesso smettendo di mettersi alla
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Per sconfiggere la paura di vincere e sviluppare l’istinto killer è importante: non sentirsi rassicurati quando si è in vantaggio; mantenere energia e intensità; non strafare per chiudere in bellezza; mantenere la pressione sul tuo avversario; non cambiare drasticamente stile di gioco. La psicologa Elena Vlacos snocciola altri “trucchi” per giocare a tennis in uno stato ottimale. Anzitutto non pensare a cose che non hanno a che fare con il tennis: al punteggio, al passato (il mio avversario mi vince sempre / sempre batto questo rivale, quella palla era buona e me l’ha contata fuori, etc. …), al futuro (5 -3 a favore / contro, ho vinto questo game / l’ho perso …); evitare l’autocritica a tutti i costi; usare frasi di auto-rinforzo per darsi carica. Sono tanti piccoli accorgimenti che anche chi si diletta a livello amatoriale conosce, ma magari non applica. Tutti ripetono che la testa è importante, ma pochi conoscono i metodi per ottimizzarne la resa. Una la direzione comune a quasi tutti gli psicologi dello sport: la mente va allenata, così come un colpo. Non è un aspetto marginale, tutt’altro. E in molti, anche nelle accademie, hanno iniziato a capirlo.