Le graduatorie hanno sempre stregato la mente umana quale strumento per distinguerci e sottolineare, senza equivoci, il primato sociale. Con l’evoluzione della società, un po’ in tutti i campi, si sono adottati metodi di classificazione e misurazione sempre più avanzati e complessi, alla ricerca di una, pur sempre apparente, precisione assoluta.
Anche nello sport si è assistito all’uso sempre più accentuato di classificazioni, basato sulle vittorie, sui risultati, ma anche su altri aspetti della competizione, al fine di distinguere i migliori.
Peraltro, nessun sistema di misurazione potrà mai essere assoluto e una qualsiasi metodologia classificatoria potrà essere scalata con maggiore o minore efficacia adottando o meno apposite tattiche e/o strategie di calcolo o comportamentali.
Proprio per questo e nella più alta considerazione dello spirito alla base dell’originaria competizione sportiva, quale leale sfida tra due contendenti o fazioni [squadre] da definirsi in un’unica regolar tenzone, molti sport dalla loro nascita avversarono per anni tutto ciò che assomigliasse o si esplicasse attraverso delle classifiche di valori, come i campionati, che si spingessero oltre quella sfida, la sfida.
Il motivo di ciò era la convinzione che solo il confronto individuale, la gara unica potesse garantire la piena lealtà dei contendenti senza tatticismi o strategie di sorta che, diversamente, potrebbero risultare utili nell’economia di classifiche e/o graduatorie basate su più competizioni e tese a definire il migliore oltre una sfida duale.
Il rugby, sport che amo proprio per una sua immutata originaria audacia e spregiudicatezza di fondo, disdegnando troppi tatticismi, avversò talmente la formula del campionato, tanto da introdurre il professionismo, ad eccezione del rugby francese che ebbe un’evoluzione atipica in tal senso che ne caratterizzo, per questo, anche la storia agonistica, solo verso la fine del secondo millennio, vivendo per più di cento anni solo di duali sfide epocali reiterate nel tempo – celebre l’annuale Varsity Match tra le università di Oxford e Cambridge – piccoli tornei [ma diventati grandi proprio per la fama acquisita nel tempo] e pochi altri esempi come quello dei Barbarians squadra ad inviti che vive di sole sfide occasionali contro le migliori formazioni mondiali.
Anche il tennis prima della così detta era open, non aveva un vero e proprio sistema classificatorio unico e negli anni sessanta si assistette ad un atipico parallelismo tra il tour dei professionisti, dove i giocatori spesso si sfidavano in un contesto molto più simile all’esibizione se non, addirittura, allo show fine a se stesso dove il risultato sportivo, se non addirittura già concordato a tavolino, passava in secondo piano, ed il tour più istituzionale, quello riconosciuto dall’International Board, dove l’assenza dei migliori rappresentanti del tennis giocato portava, spesso, a risultati opinabili sotto il profilo meramente sportivo.
Bill Tilden, nel suo libro/manuale, afferma che era spesso oggetto di classifiche redatte da una o altra testata giornalistica, quasi mai omogenee e, spesso, contraddittorie, fortemente condizionate dalla maggiore forza mediatica dei tornei più blasonati o sponsorizzati dall’international board, Coppa Davis (ai tempi non si chiamava così) su tutti.
Tutto ciò per dire che ogni sistema di classificazione è solo uno strumento, può essere migliore, peggiore, ma sempre un sistema convenzionale di misurazione rimane e, come tale, vale per quello che è e rappresenta, ma sopratutto per il valore che ognuno di noi gli assegna …