La Repubblica 23.07.2010 (n.d.r. Antonio Gnoli)
Gli ottanta di Clerici fra Wimbledon e il Nobel
Per Gianni Clerici gli ottant'anni che compirà domani sono una piccola formalità.
Un impegno come un altro. Niente di celebrativo, di memorabile, di simbolico gli appartiene. Diffida della retorica degli anni tondi. Scrittore, giornalista, poeta, cultore raffinato del tennis, sport al quale si è immolato fin da giovane, come fosse una droga, un assenzio, un vizio dal quale mai separarsi, Clerici esprime con i suoi modi una raffinata inclinazione alla diversità. In un certo senso è unico. Non trovo in giro personaggi che gli assomigliano.
Come si sente ottantenne?
"La vecchiaia è un di più del quale ameremmo fare a meno. Diciamo che mi difendo".
È più a suo agio con una racchetta o con una penna in mano?
"Fallito come tennista ho tentato di diventare scrittore, ma non sono riuscito a togliermi da quelle gravitazioni tipiche di chi lascia una strada per un'altra. Probabilmente essere creduto uno scrittore mi nuoce".
Ed essere un tennista l'ha avvantaggiata?
"È stato utile per il mestiere di giornalista. Ho sempre avuto sia l'inclinazione all'attività muscolare o ricreativa, sia quella della riflessione e di scrittura. Le due cose hanno trovato un punto di incontro, per cui sono passato dall'una all'altra senza eccessivi drammi".
Fu Gianni Brera a incoraggiarla. E' vero?
"Favorì il mio ingresso a Il Giorno. Brera fu un grande, dovremmo ricordarlo meglio".
Forse ha pesato il fatto di essere un giornalista sportivo?
"Indubbiamente. Siamo considerati dei paria, gente con degli handicap. Ricordo che al mio primo libro, Bassani e Soldati lo presentarono allo Strega. E quando mi ritrovai nel salotto del Premio, la signora Bellonci che lo aveva fondato, mi sogguardò con curiosità. Ero vestito bene, avevo un'aria gradevole e la Bellonci mi disse: ma lei è quello del tennis? Lo sa che usa proprio bene i congiuntivi e i condizionali?".
Quanti romanzi ha scritto?
"Complessivamente i miei libri sono una dozzina, cui vanno aggiunti circa ottomila articoli. Potrei considerarmi una pallida imitazione di Guerra e pace".
Cosa la spinge alla scrittura, diciamo a quella non professionalmente intesa?
"L'abitudine, la pigrizia, la vigliaccheria".
Tutte qualità negative.
"Le mie qualità negative le esprimo nella scrittura".
Meglio vincere Wimbledon o il Nobel?
"Vincere il torneo di Wimbledon fu il mio sogno da bambino e quando ho cominciato a scrivere il mio sogno si è trasferito dalle parti dell'Accademia di Svezia. Il primo è naufragato e per il secondo non vedo francamente grandi possibilità".
Cosa le è mancato per realizzare il sogno inglese?
"Mettiamola così: la mia fantasia mi spingeva a pensare che avrei vinto. Beh, la prima volta che sono andato a Wimbledon mi hanno fatto partecipare a stento a un torneo e ho perso subito la prima partita. Fu un richiamo alla realtà".
Le pesa dover ammettere che quello che lei immaginava di fare non si è realizzato per limiti tecnici?
"Non tecnici, limiti umani".
Qual è la differenza?
"Tecnicamente sono stato un buonissimo giocatore, ma non avevo l'animo, diciamo la forza, la convinzione. Ero inadatto alla vittoria, perché la vittoria implica un atteggiamento bellico. Lo sport è, parafrasando Clausewitz, la continuazione della guerra con altri mezzi".
Perché è così importante l'aspetto conflittuale nella competizione sportiva?
"Perché, ripeto, in ballo c'è la vittoria. Non è secondario. Ti insegnano che l'avversario non è il tuo nemico, e che il tuo nemico sei tu stesso. D'accordo. Ma devi capire: primo, che il tuo avversario è il nemico e poi, dopo avere letto un po' di Freud, che tu puoi farti del male da solo".
Lei è sempre così ironico?
"È un derivato che mi porto dalle mie frequentazioni inglesi: diciamo Oscar Wilde, Bernard Shaw, giù fino a Evelin Waugh".
Filosofia del dandy?
"Il dandysmo è complementare all'ironia. Temo che non se ne possa fare a meno".
È la capacità di affrontare le cose lateralmente.
"Sì, certo. Ma non trascurerei la componente inconscia, perché non è che razionalizziamo tutto quello che facciamo. E per me l'ironia è anche una forma di timidezza. Sono stato un bambino timidissimo. In fondo essere ironico ti consente di evitare molti drammi nella vita".
Qual è il rapporto con i suoi libri?
"Brucio tutto quello che ritengo non meriti di essere pubblicabile. È un modo anche di non impegnare i lettori con cose inutili o mediocri".
Cos'è questa modestia che ogni tanto affiora?
"Forse è presunzione travestita da modestia. Me lo diceva anche il mio psichiatra".
So che sta lavorando a un nuovo romanzo.
"Ha come sfondo l'Australia. Ma non so ancora se lo finirò o se sarà uno di quelli destinati al caminetto. Comunque sto tentando di portare a termine una storia su un paese straordinario, macchiato dal peggiore genocidio, insieme a quello perpetrato contro gli ebrei: quello praticato sui poveri aborigeni. Non dimentichiamo che i primi inglesi a sbarcare su quelle rive fatali furono galeotti".
È così forte il suo legame con la lingua inglese?
"È stata la mia patria. Anche se in casa nostra - come accadeva nelle vecchie famiglie lombarde - si preferiva il francese o il dialetto. Fu grazie a una tata russa bianca che ho imparato a sei anni il francese e in seguito l'inglese".
Immagino dunque un'infanzia felice.
"Un piccolo principe la cui infanzia fu distolta dalla guerra".
Cosa accadde?
"Ho appreso le durezze della vita. La guerra fa bene a chi vi sopravvive. Ci si confronta con paradigmi estremi: la violenza, il rischio, la morte".
Si è trovato coinvolto?
"La brigata che ha arrestato Mussolini era la "Cinquantaduesima, Luigi Clerici", un mio parente. Anche mio padre partecipava. Ricordo che gli portavo i mitra sovietici nascosti nella borsa da tennis. Un giorno stavo per essere scoperto. Avevo 14 anni e oggi non sarei qui a raccontarmi".
Queste esperienze portano anche a maturare una coscienza civile. Ma la cosa non la sfiora. Perché?
"Forse sono un cattivo italiano".
A proposito dell'Italia che impressione ha di quella odierna?
"E a lei che impressione fa?".
Sono io a chiederglielo.
"Lasci che non risponda, è troppo facile rispondere".
Forse anche un po' necessario.
"Il silenzio, in questo caso, è uno degli aspetti della mia codardia. Che a volte si traveste di ironia. Mentre qui, siamo al grottesco. Mi lasci prescindere, lasci che mi nasconda".
L'arte della dissimulazione è antica.
"Non so se sia una qualità, occorre riflettere".
Arriva dritta dritta dal Rinascimento.
"Una grande epoca, anche pericolosa. Ho un amico che sa tutto del Rinascimento e mi aiuta a scrivere un saggio sulle corti rinascimentali, gli sport e i trastulli di quell'epoca".
Ritrovo il vecchio scriba.
"Cerco di restare nell'umile mestiere. Anche per esorcizzare la domanda della famosa Bellonci: lei è quello del tennis? Forse dovrei abbracciare questa parte di me che considero più autentica".
Rischiando di diventare un personaggio letterario.
"Chissà se è un bene. Mi fa delle domande che sottolineano la mia ambiguità".
Dopotutto le ambiguità aprono alla curiosità, rendono le cose meno prevedibili e noiose.
"Mi spingono a meditare su me stesso. Sa, ho anche una laurea in Storia delle religioni. Perché mi sono sempre interessato a quello che accade dopo la morte. Sospetto che un uomo, anche ateo, senza la presenza della religione non può vivere. Il giorno che scriverò un'autobiografia gliela mando. Sono certo che le risponderò con maggiore profondità e precisione".
Auguri, Gianni!!
Gli ottanta di Clerici fra Wimbledon e il Nobel
Per Gianni Clerici gli ottant'anni che compirà domani sono una piccola formalità.
Un impegno come un altro. Niente di celebrativo, di memorabile, di simbolico gli appartiene. Diffida della retorica degli anni tondi. Scrittore, giornalista, poeta, cultore raffinato del tennis, sport al quale si è immolato fin da giovane, come fosse una droga, un assenzio, un vizio dal quale mai separarsi, Clerici esprime con i suoi modi una raffinata inclinazione alla diversità. In un certo senso è unico. Non trovo in giro personaggi che gli assomigliano.
Come si sente ottantenne?
"La vecchiaia è un di più del quale ameremmo fare a meno. Diciamo che mi difendo".
È più a suo agio con una racchetta o con una penna in mano?
"Fallito come tennista ho tentato di diventare scrittore, ma non sono riuscito a togliermi da quelle gravitazioni tipiche di chi lascia una strada per un'altra. Probabilmente essere creduto uno scrittore mi nuoce".
Ed essere un tennista l'ha avvantaggiata?
"È stato utile per il mestiere di giornalista. Ho sempre avuto sia l'inclinazione all'attività muscolare o ricreativa, sia quella della riflessione e di scrittura. Le due cose hanno trovato un punto di incontro, per cui sono passato dall'una all'altra senza eccessivi drammi".
Fu Gianni Brera a incoraggiarla. E' vero?
"Favorì il mio ingresso a Il Giorno. Brera fu un grande, dovremmo ricordarlo meglio".
Forse ha pesato il fatto di essere un giornalista sportivo?
"Indubbiamente. Siamo considerati dei paria, gente con degli handicap. Ricordo che al mio primo libro, Bassani e Soldati lo presentarono allo Strega. E quando mi ritrovai nel salotto del Premio, la signora Bellonci che lo aveva fondato, mi sogguardò con curiosità. Ero vestito bene, avevo un'aria gradevole e la Bellonci mi disse: ma lei è quello del tennis? Lo sa che usa proprio bene i congiuntivi e i condizionali?".
Quanti romanzi ha scritto?
"Complessivamente i miei libri sono una dozzina, cui vanno aggiunti circa ottomila articoli. Potrei considerarmi una pallida imitazione di Guerra e pace".
Cosa la spinge alla scrittura, diciamo a quella non professionalmente intesa?
"L'abitudine, la pigrizia, la vigliaccheria".
Tutte qualità negative.
"Le mie qualità negative le esprimo nella scrittura".
Meglio vincere Wimbledon o il Nobel?
"Vincere il torneo di Wimbledon fu il mio sogno da bambino e quando ho cominciato a scrivere il mio sogno si è trasferito dalle parti dell'Accademia di Svezia. Il primo è naufragato e per il secondo non vedo francamente grandi possibilità".
Cosa le è mancato per realizzare il sogno inglese?
"Mettiamola così: la mia fantasia mi spingeva a pensare che avrei vinto. Beh, la prima volta che sono andato a Wimbledon mi hanno fatto partecipare a stento a un torneo e ho perso subito la prima partita. Fu un richiamo alla realtà".
Le pesa dover ammettere che quello che lei immaginava di fare non si è realizzato per limiti tecnici?
"Non tecnici, limiti umani".
Qual è la differenza?
"Tecnicamente sono stato un buonissimo giocatore, ma non avevo l'animo, diciamo la forza, la convinzione. Ero inadatto alla vittoria, perché la vittoria implica un atteggiamento bellico. Lo sport è, parafrasando Clausewitz, la continuazione della guerra con altri mezzi".
Perché è così importante l'aspetto conflittuale nella competizione sportiva?
"Perché, ripeto, in ballo c'è la vittoria. Non è secondario. Ti insegnano che l'avversario non è il tuo nemico, e che il tuo nemico sei tu stesso. D'accordo. Ma devi capire: primo, che il tuo avversario è il nemico e poi, dopo avere letto un po' di Freud, che tu puoi farti del male da solo".
Lei è sempre così ironico?
"È un derivato che mi porto dalle mie frequentazioni inglesi: diciamo Oscar Wilde, Bernard Shaw, giù fino a Evelin Waugh".
Filosofia del dandy?
"Il dandysmo è complementare all'ironia. Temo che non se ne possa fare a meno".
È la capacità di affrontare le cose lateralmente.
"Sì, certo. Ma non trascurerei la componente inconscia, perché non è che razionalizziamo tutto quello che facciamo. E per me l'ironia è anche una forma di timidezza. Sono stato un bambino timidissimo. In fondo essere ironico ti consente di evitare molti drammi nella vita".
Qual è il rapporto con i suoi libri?
"Brucio tutto quello che ritengo non meriti di essere pubblicabile. È un modo anche di non impegnare i lettori con cose inutili o mediocri".
Cos'è questa modestia che ogni tanto affiora?
"Forse è presunzione travestita da modestia. Me lo diceva anche il mio psichiatra".
So che sta lavorando a un nuovo romanzo.
"Ha come sfondo l'Australia. Ma non so ancora se lo finirò o se sarà uno di quelli destinati al caminetto. Comunque sto tentando di portare a termine una storia su un paese straordinario, macchiato dal peggiore genocidio, insieme a quello perpetrato contro gli ebrei: quello praticato sui poveri aborigeni. Non dimentichiamo che i primi inglesi a sbarcare su quelle rive fatali furono galeotti".
È così forte il suo legame con la lingua inglese?
"È stata la mia patria. Anche se in casa nostra - come accadeva nelle vecchie famiglie lombarde - si preferiva il francese o il dialetto. Fu grazie a una tata russa bianca che ho imparato a sei anni il francese e in seguito l'inglese".
Immagino dunque un'infanzia felice.
"Un piccolo principe la cui infanzia fu distolta dalla guerra".
Cosa accadde?
"Ho appreso le durezze della vita. La guerra fa bene a chi vi sopravvive. Ci si confronta con paradigmi estremi: la violenza, il rischio, la morte".
Si è trovato coinvolto?
"La brigata che ha arrestato Mussolini era la "Cinquantaduesima, Luigi Clerici", un mio parente. Anche mio padre partecipava. Ricordo che gli portavo i mitra sovietici nascosti nella borsa da tennis. Un giorno stavo per essere scoperto. Avevo 14 anni e oggi non sarei qui a raccontarmi".
Queste esperienze portano anche a maturare una coscienza civile. Ma la cosa non la sfiora. Perché?
"Forse sono un cattivo italiano".
A proposito dell'Italia che impressione ha di quella odierna?
"E a lei che impressione fa?".
Sono io a chiederglielo.
"Lasci che non risponda, è troppo facile rispondere".
Forse anche un po' necessario.
"Il silenzio, in questo caso, è uno degli aspetti della mia codardia. Che a volte si traveste di ironia. Mentre qui, siamo al grottesco. Mi lasci prescindere, lasci che mi nasconda".
L'arte della dissimulazione è antica.
"Non so se sia una qualità, occorre riflettere".
Arriva dritta dritta dal Rinascimento.
"Una grande epoca, anche pericolosa. Ho un amico che sa tutto del Rinascimento e mi aiuta a scrivere un saggio sulle corti rinascimentali, gli sport e i trastulli di quell'epoca".
Ritrovo il vecchio scriba.
"Cerco di restare nell'umile mestiere. Anche per esorcizzare la domanda della famosa Bellonci: lei è quello del tennis? Forse dovrei abbracciare questa parte di me che considero più autentica".
Rischiando di diventare un personaggio letterario.
"Chissà se è un bene. Mi fa delle domande che sottolineano la mia ambiguità".
Dopotutto le ambiguità aprono alla curiosità, rendono le cose meno prevedibili e noiose.
"Mi spingono a meditare su me stesso. Sa, ho anche una laurea in Storia delle religioni. Perché mi sono sempre interessato a quello che accade dopo la morte. Sospetto che un uomo, anche ateo, senza la presenza della religione non può vivere. Il giorno che scriverò un'autobiografia gliela mando. Sono certo che le risponderò con maggiore profondità e precisione".
Auguri, Gianni!!